lunedì 30 giugno 2008

Il lavoro che volevo

Avere le idee chiare sul tipo di lavoro da intraprendere oggi non è semplice, tanto che a molti capita di ritrovarsi a fare qualcosa, senza sapere neppure il perché. Tante le strade tortuose che si prendono, è proprio quando si è arrivati a conquistare un lavoro, ci si accorge che proprio quel lavoro, tanto agognato, non era quello che si voleva. Il tempo in ufficio rischia di diventare anonimo, in cui è sempre più difficile esprimere e affermare qualità e ambizioni. Da un indagine realizzata da Kelly Services, società di servizi per la gestione delle risorse umane, su un campione di quasi 20 mila lavoratori in Italia, emerge che un italiano su cinque è sicuro di avere sbagliato tipo di carriera e un altro 23% non ha alcuna certezza in merito, e a pensare di avere sbagliato carriera sono soprattutto le donne. L’attività professionale ha uno stretto legame con l’affermazione, l'ambizione e la realizzazione delle proprie qualità e ritrovarsi in un posto che non offre il necessario sviluppo a queste energie può avere conseguenze molto negative sia a livello del singolo lavoratore sia a livello aziendale. Per questo diventa fondamentale che ciascuno cerchi di scegliere una professione nella quale “riconoscersi”. Inoltre i rapidi cambiamenti tecnologici, e non solo, rendono necessari momenti di aggiornamento e di studio che possono essere colti come opportunità solo se il lavoratore vive la propria professione in modo partecipativo, anche perchè un lavoratore appagato, oltre ad essere più sereno nella vita privata, darà performance nettamente migliori rispetto a quelle di un collega demotivato, a beneficio di tutta l’azienda.
La quota di insoddisfatti che non possono cambiare lavoro è un dato allarmante che mette in luce la necessità di preparare i giovani sia da un punto di vista nozionistico ma anche comportamentale. E’ importante che quando un giovane sceglie il proprio percorso universitario, e quindi professionale, sia consapevole delle proprie capacità e attitudini, non tralasciando la “passione”.
Purtroppo accorgersi di avere sbagliato lavoro rischia di aggravare ancora di più le cose e quasi sempre ci si ritrova a continuare a fare quel che si è scoperto essere inadatto a sé.
La ragione principale va rintracciata, ovviamente, nelle condizioni economiche (38%) e il tempo necessario per ricollocarsi (35%). Se si vuole cambiare lavoro è necessario investire in formazione e frequentare corsi inerenti alla nuova professione scelta, ma non basta. Dove fosse possibile, è sicuramente auspicabile cambiare lavoro all’interno della stessa azienda presso la quale si è occupati, con conseguenti benefici sia per l’organizzazione, che per il lavoratore, che potrà così concentrarsi esclusivamente ad imparare i nuovi compiti. Se si fa un confronto internazionale, la quota di italiani che hanno ammesso di aver sbagliato carriera è simile a quella riscontrata negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Olanda, Francia, Svizzera, Spagna, Germania e Irlanda, tutte con una percentuale di insoddisfatti compresa tra 15-20%, quanto al sistema formativo, per il 51% dei lavoratori intervistati, scuola e università mancano il loro compito di preparare in modo soddisfacente alla vita lavorativa; in Italia lo pensano il 38%. Quanto alle scuole di specializzazione e ai master, quasi sette intervistati su dieci pensano che siano stati utili ai fini lavorativi, anche se molti ritengono che si dovrebbero sviluppare ancora di più gli aspetti pratici del corso a scapito di quelli più teorici. In tale contesto assume sempre più importanza l'attivtà di Orientamento al lavoro che rappresenta il presupposto di una sostanziale ed efficace “presa di coscienza di se stessi” e di cosa si vuole fare da grandi. In italia non si è sviluppata ancora una vera e propria cultura di Orientamento al Lavoro anche se si sta cominciando a comprendere la sua importanza.

mercoledì 25 giugno 2008


Sempre più giovani scelgono l'agricoltura come stage estivo: a scuola di legalità

400 magliette colorate in partenza per la Calabria dal nord-italia e dall'estero che hanno scelto la nostra regione non per le spiaggie o le pinete della Sila, ma per dare un contributo e imparare cosa è la legalità in una terra dove la 'ndragheta è una realtà dirompente. In una azienda della provincia di Reggio Calabria, i ragazzi vengono ben istruiti per lavorare in ben otto ettari di terra confiscati e sequestrati ai clan della Piana di Gioia Tauro, dove da tre anni si produce olio extravergine, conserve di peperoni, melanzane e miele, tutto biologico. Questa coperativa sociale calabrese è affidataria dei terreni grazie a Libera, l'associazione di don Luigi Ciotti contro le mafie che ha creato un network di aziende che unisce lavoro e missione sociale. Questa esperienza è molto ricercata dai giovani e spesso le aziende sono costrette a rifiutarne molti per mancanza di posti disponibili. Ovviamente la Regione Calabria non partecipa a queste iniziative....pur avendo finanziato la costruzione di centinaia di capannoni nella Piana e oggi chiusi e vuoti. I ragazzi italiani arrivano preparati su questi territori, la mafia, la 'ndragheta, sanno già cosa è, ma gli stranieri, spesso non hanno proprio idea delle condizioni che ci sono nel nostro paese. E' un esperienza che molti ragazzi ripetono perchè fa crescere in loro un gran senso di responsabilità, cosa che molti ragazzi hanno sottolineato paragonando questo tipo di vacanza alla classica vacanza al mare. Ma i ragazzi calabresi conoscono queste vacanze "alternative"?

giovedì 19 giugno 2008

Più rispetto per il tempo libero dei lavoratori

Anche i lavoratori che non hanno un contratto part-time hanno diritto al loro tempo libero, e devono essere avvisati per tempo dei cambi di turno. Ad affermarlo è la Corte di Cassazione con sentenza 12962/2008. Con questa sentenza la Corte ha accolto il ricorso di un gruppo di conducenti di autobus di una azienda privata che "erano in grado di conoscere preventivamente la turnazione relativa a sole dieci giornate mensili, mentre per le rimanenti 16 giornate venivano a conoscenza del turno assegnato solo il giorno precedente a quello di svolgimento della prestazione lavorativa". Secondo la Corte infatti, anche i lavoratori che hanno un contratto a tempo pieno hanno diritto ad organizzare il loro tempo libero che ha "una sua specifica importanza stante il rilievo sociale che assume lo svolgimento, anche per il lavoratore a tempo pieno, di attività sportive, ricreative, culturali, sociali, politiche, scolastiche...". Il giudice di primo grado aveva dato ragione ai lavoratori che, sostanzialmente, lamentavano proprio di non poter organizzare il proprio tempo libero, mentre la Corte d'appello aveva ribaltato la decisione sostenendo che trattandosi di rapporti di lavoro "a tempo pieno", nessuna disposizione normativa o contrattuale prevedeva che i lavoratori dovessero sapere con largo anticipo l'orario dei turni. Al contrario la Cassazione ha ricordato che "anche una comunicazione del turno di lavoro avvenuta soltanto il giorno precedente" può ledere la dignità del lavoratore. E ciò anche se il contratto prevede il "tempo pieno" posto che "le esigenze di programmabilità del tempo libero, ravvisate espressamente dal legislatore nell'ambito del rapporto di lavoro part-time, sussistono, anche se in maniera meno pressante, all'interno del rapporto di lavoro a tempo pieno". La Corte d'appello, quindi, dovrà ora stabilire per i dipendenti il compenso per "ogni giorno effettivo di turno in disponibilità" sottratto alle "ore di svago" o, anche, "nel caso in cui non sia prevista una clausola di esclusiva, di un secondo lavoro".

lunedì 16 giugno 2008


Nell’era della flessibilità gli italiani sognano il posto fisso

Da un'indagine condotta dall’Ispo, l’Istituto di ricerca guidato da Renato Mannheimer emerge che nonostante il mercato chieda flessibilità, l’Europa chiede flessibilità, gli italiani sognano il posto fisso. I giovani sognano il posto in banca o in un ministero. Sognano stabilità e sicurezza. Nel resto d’Europa a riguardo sono state fatte esperienze interessanti, ma l’’Italia, invece, su questo terreno è indietro. Maurizio Sacconi, ministro del Welfare, ora sta riprendendo in mano la questione. Si parla di nuova cultura del lavoro. Un discorso difficile a cui vanno trovate soluzioni per un tipo di flessibilità “guidata”, con ammortizzatori nei periodi di vuoto.
Da noi la flessibilità è percepita negativamente e la progressiva diffusione delle nuove tipologie di contratti temporanei è la ragione di un clima di scontentezza. Sono soprattutto i giovani la fascia di lavoratori maggiormente coinvolti nella trasformazione del mercato e di conseguenza sono i primi a scontrarsi con i problemi non risolti. Per la maggioranza di loro, infatti, essere un lavoratore atipico ha rappresentato un fattore discriminante e un ostacolo a scelte esistenziali. L’acquisto, l’affitto di una casa, la nascita di un figlio o un prestito in banca sono stati un problema.
Secondo le stime Istat tra il 2006 e il 2007 i 537 centri per l’impiego pubblici hanno collocato solo 95mila persone nell’arco di due anni, impiegando 15mila addetti. Manpower/(Agenzie Interinali), con 450 filiali e 2mila dipendenti, nel solo 2007 ha avviato al lavoro circa 120mila persone con i contratti atipici. Di queste persone il 40% dopo un anno ha avuto un contratto stabile, a tempo indeterminato.
Ma quali sono i livelli di soddisfazione dei lavoratori? Molto soddisfatti, 34%; abbastanza soddisfatti, 24%; poco soddisfatti, 11%; per nulla soddisfatti, 8%; non sa il 23%. In realtà si scopre che chi è entrato “flessibile” dopo un anno o due si stabilizza. Notevole è il dato che chi è più forte considera la flessibilità un’occasione, chi è più debole la teme.
Gli italiani, in genere, sono ancorati all’idea di stabilità. Anche se l’Unione europea, che con gli obiettivi di Lisbona ha delineato degli standard, sostiene che dovremmo fare passi avanti sulla strada dei nuovi contratti. Siamo al di sotto della media Europea.
Ma che cosa pensano gli italiani del proprio impiego? Sei persone su dieci si ritengono mediamente soddisfatte. Tra gli aspetti del lavoro che gli italiani considerano di maggiore importanza spicca la “sicurezza del posto”, indicata dal 28% degli intervistati come prima risposta. La stabilità è ritenuta più importante dello stipendio, che viene collocato al secondo posto. Il confronto con i risultati di un analogo sondaggio condotto nel 2001 evidenzia che c’è stato un forte incremento nella rilevanza data alla stabilità dell’impiego, passata dal 18 al 28%, di contro si è verificato un calo dell’interesse riferito al reddito e al tipo di lavoro, passati rispettivamente dal 18 al 16% e dal 15 al 14%. Dal 2001 al 2007 è balzata dal 59% al 73% la quota di «chi preferisce un impiego sicuro anche se meno redditizio, mentre scende dal 18 al 15% la percentuale di chi mette lo stipendio al primo posto». «Tutto questo - osserva ancora l’Ispo - nonostante l’indagine mostri che l’80% degli occupati sia tuttora assunto a tempo indeterminato». Inoltre per il 73% degli intervistati i contratti a termine hanno «accresciuto l’insicurezza sociale», mentre il 61% ritiene che «un mercato del lavoro flessibile sia in primo luogo un mercato precario». E, osserva l’indagine, sono «proprio i lavoratori dipendenti e gli impiegati a tempo indeterminato a condividere maggiormente (80%) queste opinioni e a rivelare maggiore sfiducia nella capacità del sistema di offrire le giuste opportunità e un adeguato livello di stabilità alla popolazione attiva».
L’indagine mostra un «Paese abbastanza soddisfatto ma molto spaventato», incapace di cogliere i cambiamenti in atto e le opportunità di crescita». Ma una ragione c’è. Il mercato chiede il superamento del modello del posto fisso. Però gli italiani non hanno fiducia nei confronti delle nuove forme contrattuali perché finora non hanno avuto fiducia nelle istituzioni che non garantivano il sostegno e le tutele necessarie ad equilibrare l’instabilità implicita in un contratto a termine. C’è comunque anche una parte della popolazione che condivide «maggiore fiducia nelle opportunità offerte dai contratti temporanei e considera la flessibilità come una “condizione indispensabile del mercato moderno”». E questo non è solo il punto di vista di imprenditori e liberi professionisti, 59%, ma è diffuso in generale tra i residenti del Nord Italia, 55%, e «trova sempre maggiori consensi al crescere del livello dell’istruzione».

giovedì 12 giugno 2008


Sicurezza sul lavoro: inutile inasprire le sanzioni, bisogna insistere sulla Formazione

All’indomani della tragedia dei sei operai di Mineo (CT) si ritorna sul problema delle morti bianche. Si riaprono i dibattiti, si riuniscono Commissioni e si continua a discutere su ulteriori rimedi immediati per non dover assistere inermi a queste tragedie. La semplificazione della sicurezza sembra il primo scoglio da superare è questo quello che viene analizzato da un indagine Cineas, consorzio universitario noprofit, dove viene evidenziato che nelle aziende l’errore umano rimane la causa di maggiore frequenza. Nell’indagine proposta, sono state intervistate 400 aziende, oltre il 50% ha risposto che inasprire le sanzioni alle aziende che non rispettano le norme sulla sicurezza dei posti di lavoro è inefficiente; sono le aziende a capitale estero che hanno maggiore perplessità, sostenendo che le imprese, sulla base della sanzione sono più propense a produrre documentazione per dimostrare la loro innocenza più che ad attivarsi per evitare l’incidente. Bisogna far maturare la consapevolezza che nella pericolosità del rischio c’è una responsabilità individuale e collettiva. I morti sul lavoro non sono dovuti a fatalità e non sono neanche il tributo che bisogna pagare allo sviluppo, ma piuttosto sono il risultato di una scarsa valutazione del rischio. Allora servono formazione e cultura della sicurezza che ancora scarseggiano. I responsabili delle aziende chiedono meccanismi premianti che riducano in modo consistente gli incidenti sul lavoro. Un meccanismo simile a quello che regola il premio assicurativo Inail, uno sconto automatico in relazione all’andamento infortunistico e all’entità degli investimenti effettuati, da parte delle aziende, sulla sicurezza. L’obbiettivo deve essere quello di rendere il dipendente pronto alla giusta reazione difronte all’inatteso che porta a mantenere e acquisire comportamenti corretti. La formazione sarà l’evoluzione delle aziende, si dovrà investire molto, rendendo tutti partecipi e tutti responsabili del proprio lavoro e del lavoro altrui.

sabato 7 giugno 2008


PIL più alto con l'occupazione femminile

Nell'ultimo convegno di Manageritalia è stato presentato uno studio importante secondo il quale analizzando le pari opportunità da un punto di vista economico è possibile quantificare gli effetti di una maggiore partecipazione femminile sul Pil. Dal risutato di questo studio è emerso che la crescita del lavoro femminile contribuisce ad alimentare la produttività nazionale.
Nel dettaglio è stato illustrato che elevando il tasso di occupazione femminile fino a raggiungere quello maschile (da 55,3% a 75,3% nel Centro Nord e da 31,1% a 62,2% al Sud) il PIL italiano potrebbe crescere complessivamente del 12,3%. Questo dato tiene conto della produttività media pesente nelle macroaree ed aggiustato in base agli effetti generati dalla crescita dell'occupazione. Il calcolo tiene conto del fatto che le donne potrebbero entrare nel mondo del lavoro con un lavoro part-time e dell'eventuale espansione della manodopera a basso valore aggiunto. A tal proposito l'aumento delle donne lavoratrici ha determinato in questi anni la nascita di "nuove" attività (prima non regolarizzate) come quelle delle badanti e delle colf, generando ulteriore occupazione. In pratica, le pari opportunità comporterebbero l'ingresso di due milioni 495mila occupate nel Centro Nord e due milioni 175mila al Sud. Inoltre, se soltanto il tasso di occupazione femminile nel Mezzogiorno raggiungesse i valori riscontrati nel resto del Paese (dal 31,1% al 55,3%) il Pil nazionale crescerebbe del 4%. Per finire, da un ultima indagine di Manageritalia emerge che nel 60% delle aziende interpellate, l'argomento delle pari opportunità non viene affrontato e, quando se ne parla, lo si fa parlando delle discriminazioni e delle differenze retributive, non in termini di opportunità da sfruttare.

martedì 3 giugno 2008


Novità per gli Interinali

I lavoratori in somministrazione, gli interinali, i lavoratori in affitto, prestano la loro attività lavorativa presso aziende per tempi determinati; sono lavoratori precari per definizione. Ma anche per loro ci sono novità. Il nuovo contratto nazionale di categoria, il terzo nei dieci anni da quando in Italia è nato il lavoro interinale, prevede infatti più stabilità e più tutele. E' stato stabilito che dopo 42 mesi di lavoro, 36 se di lavoro continuativo, considerando anche la maternità, gli infortuni, la formazione, il rapporto di lavoro cambia e il contratto diventa a tempo indeterminato. Ma non c'è solo questo. E' stata istituita una previdenza integrativa, una assistenza sanitaria integrativa e tanta formazione con le spese a carico sia delle agenzie per il lavoro che dell'ente bilaterale nazionale per il lavoro temporaneo, l'Ebitemp. E' previsto, inoltre, che il lavoratore stabilizzato resti alle dipendenze dell'agenzia per almeno 12 mesi, a meno che non rifiuti una congrua offerta di lavoro, dopo questo periodo se l'agenzia non può più mantenere a proprio carico il lavoratore, per mancanza di occasioni di lavoro, il legame si scioglie e al lavoratore spetta un indennità di 700 euro mensili per 6 o 7 mesi a seconda che abbia meno o più di 50 anni. Indennità a carico dell'agenzia e dell'Ebitemp in maniera paritetica. Si tratta di interventi mirati a facilitare la vita di tanti lavoratori precari.